In Aikido, si sa, non esiste il combattimento.
Questa frase, usata ed abusata a destra e a manca, comporta una serie di riflessioni tra l'interessante e l'inquietante.
Prendiamo i dati di fatto.
In Aikido non esistono gare di combattimento.
Non ci sono regolamenti, non ci sono categorie e non ci sono coppe in palio.
E fin qui tutto ok.
Nel 99,9% dei casi, i ruoli di tori ed uke sono ben definiti e l'uno esiste in funzione dell'altro.
Esiste il kaeshi waza, è vero, ma esso è allenabile solo in funzione di parametri dati, come lo studio di una determinata forma da ribaltare o di un determinato errore da sanzionare, e non è assoluto e scientifico.
E pure qui, nessun problema.
Dunque quale momento resta ad un aikidoka per mettere in gioco il proprio sapere in situazioni AIKIDOISTICHE, ma non preordinate?
Il Randori ed il Jyuwaza.
E qui cominciano i casini.
Uno dei più famosi Shihan in circolazione, suole dire che il Randori non esiste e che l'Aikido è kata e rigore.
Arbitro cornuto.
Nel senso che colui che giudica non può mai sapere cosa fa la moglie a casa sua.
E nelle case che hanno Morihei affisso al muro, generalmente, il Randori ed il Jyuwaza si praticano eccome.
Chi più e chi meno, ovviamente.
A casa mia si pratica "più".
Cosa intendo per più?
Ora vi spiego.
Il Jyuwaza non è un esercizio, ma un percorso.
Un viaggio attraverso cui i rapporti spazio temporali, i files in memoria inerenti ad i kata e tutto ciò che concerne quella tranquillità interiore che inconsciamente raggiungiamo prima di iniziare a provare una tecnica, sono messi in discussione.
I parametri con i quali solitamente partiamo, che danno per scontata la posizione di uke, il fatto che arrivi dal davanti, il lato dell'attacco, la velocità, la nostra posizione, la nostra respirazione, la chiarezza delle nostre percezioni, in Jyuwaza, come in Randori, non sono scontati manco per il caxxo.
Ma perchè parlo di percorso?
Perchè tutto ciò è soggetto a delle variabili progressive di libertà che vogliamo concedere ad uke o alla situazione.
Step che, attenzione, non siamo obbligati ad affrontare se non ne abbiamo il coraggio o la preparazione, ma che fanno la differenza su quanto "RAN" andiamo a gestire nel "DORI".
Youtube abbonda di clips nelle quali sedicenti maestroni eseguono tecniche pensate a priori su uke monoattaccanti.
Nel senso che il loro ruolo si esaurisce quando terminano il gesto, shomenuchi, per esempio, per riattivarsi unicamente al momento della caduta, atleticamente finalizzata alla vanità del tori.
Spesso li vediamo terminare il loro attacco e paralizzarsi, come se il video clip andasse in PAUSE e solo il maestro potesse muoversi all'interno del tempo immobile...
Per quanto mi riguarda, generalmente do un margine di libertà ad uke abbastanza ampio, già da subito.
Può scegliere il lato dell'attacco, la posizione dalla quale attaccare e normalmente comincia con due o tre attacchi a disposizione, con i quali proporsi.
Tutto ciò ha una regola perentoria.
Finchè tori non prende il controllo dell'azione, uke deve continuare ad attaccare senza sosta.
Faticoso?
Tanto.
Sganascioni che arrivano a segno?
Tanti, anche loro.
Ma tanto è anche quello che si impara man mano che si aumenta la libertà dell'altro.
Per me, tutta la parte formativa, sia fisica che tecnica trova il suo senso compiuto nel Jyuwaza.
Esso non rappresenta un completamento della preparazione.
Ai miei occhi è la sublimazione finale di tutto ciò che apprendiamo.
E' il momento in cui si smette di fare esercizi, geometrie, propedeutica e tradizione e si comincia veramente a fare Aikido.
In quest'ottica, quello che viene fuori dal banco prova del Jyuwaza, ci permette di riguardare diversamente a tutti gli strumenti che avevamo messo nella cassetta degli attrezzi giorno per giorno.
Una pinza d'oro zecchino, per esempio, è bellissima e very chic, ma poco utile se si tratta di tirare un chiodo...
Così per i waza.
Invece di masturbarci mentalmente su cosa può fare uke mentre noi facciamo Ikkyo, comprendiamo immediatamente che quando decidiamo di fare Ikkyo è proprio perchè uke non poteva opporsi in alcun modo.
Per lo meno senza finire dritto dritto nelle fauci di Iriminage....
Alla stessa maniera anche l'attitudine può essere rivista attraverso le esperienze del RanDori.
Una delle cose che ci portiamo dietro come retaggio tradizionale è la regola di mantenere la schiena dritta in tutto ciò che facciamo.
Sicuramente all'inizio essa significa postura, equilibrio e consapevolezza del proprio asse verticale.
Ma alla lunga diventa un blocco, che oltre a farci rassomigliare a dei burattini con un jo infilato nel sedere, ci porta a bloccare la mobilità della colonna.
Ultimamente sto rivalutando di molto la mobilità vertebrale e la possibilità di schivare un attacco più "sporco", con una manovra evasiva simile al "bobbing" del pugilato.
Strano a vedersi fatto in hakama.
Eppure immediato, istintivo, efficace e perfettamente in sintonia con lo spirito dell'Aikido.
Quell'Aikido fatto di struttura e destruttura, fatto di Go e di Ju, di solido e di cedevole, capace di un SABAKI per ogni articolazione, che mantiene vive e mobili ognuna delle sue cerniere.
Spostare la testa, se attaccati alla testa, spostare la spalla, il busto, le gambe, quando vengono attaccate, è una possibilità che non può essere devoluta a carico di un unico movimento teso ad evadere con tutto il corpo contemporaneamente.
Un braccio che si distende bruscamente verso il nostro viso sarà sempre più veloce di qualsiasi Irimi Tenkan non preparato in anticipo, mettiamocelo in mente.
Morihei definì l'Aikido, tra le tante, anche come "Sfera Pulsante".
Un organismo vivente capace di chiudere completamente sul proprio centro ogni segmento e di riaprirlo espandendosi in maniera esplosiva.
Leggo e mi verrebbe da dargli una pacca sulla spalla...
Caro Nonno, sei sempre il migliore!