29 novembre 2012

Self Correcting System

In più occasioni ho letto in giro che la Terra è un sistema "Auto correttivo".
Un sistema che sperimenta differenti soluzioni e che permette all'evoluzione di scegliere quale di esse sopravvive e quali, invece, andranno a scomparire nel dimenticatoio degli estinti, nel cestino del desktop di Darwin.



In poche parole, funziona così.
Senza preoccuparsi di correre verso una perfezione irraggiungibile, il pianeta testa i suoi miscugli di DNA.

Pur partendo da un numero limitatissimo di proteine, le possibilità offerte dalle loro combinazioni sono pressocchè infinite, un pò come le note e la musica.

A nessuna di esse è negata una chance. Ognuna può giocarsi le proprie carte sul tavolo dell'Evoluzione, salvo accettare che la posta in gioco è la scomparsa dagli annali e la assoluta condanna alla non riproduzione.

Come se venisse bannata dal menù dei cocktail come "non idonea a sopravvivere."





In che modo questa pallina blu decide chi è dentro e chi è fuori dalla lista degli invitati?

Lascia che la specie si estingua da sè.
Gli permette di percorrere completamente il vicolo cieco della sua varianza fino a che non sbatte col naso contro il muro.
E solo allora comunica che non è consentito fare passi indietro.
Tanto materna e di larghe vedute nel concedere spazio, tanto inesorabile nel chiudere la porta in faccia, quando la deludi.





Immancabilmente mi è venuto da rapportare questa visione all'Aikido.

Se ci pensate un attimo è geniale...

Un sistema autocorrettivo, che ti permette di sperimentare ogni possibile soluzione e ti sorride fraternamente quando ti racconti ogni cazzata possibile perchè la tua personale combinazione genetica sopravviva ai fallimenti in allenamento.

Verrà un momento in cui il tuo corpo sceglierà da solo cosa tenere e cosa buttare via.

Verrà un giorno in cui i tuoi muscoli e le tue articolazioni si armeranno di animo e coraggio e butteranno via tutto ciò che ingombra inutilmente la soffitta, non importa quanto tu ci fossi affezionato.
Via il cappello del bisnonno, via il trenino rotto e le mutande della prima comunione.
Via quella tecnica tanto spettacolare e coreografata che ti faceva sentire fighissimo, quando uke era perfettamente d'accordo a fare il cascatore, via quel movimento che richiedeva ore di palestra per funzionare, via i gesti innaturali e tutto ciò che necessitava di essere pensato e ricordato mentalmente...




Self Correcting System....

Certo...Possiamo dargli una mano...possiamo metterci nelle condizioni di testare quale conoscenza conservare e quale scacciare senza pietà.

Come una bella eruzione, un manto di ghiaccio che avvolge il pianeta o un bel diluvio...
Un piccolo esperimento per dare uno schiaffone sul culo dell'evoluzione e farla muovere con più energia...
Io lo chiamo caos guidato.
Ma non è indispensabile.

Possiamo credere di restare immobili nelle nostre condizioni mentali e fisiche per sempre.
Inesorabile il sistema verrà a testare ciò che può restare e ciò che invece deve fare le valigie...

Il suo test si chiama Età.


18 novembre 2012

Il Randori, Morihei ed il Banco di Prova

In Aikido, si sa, non esiste il combattimento.
Questa frase, usata ed abusata a destra e a manca, comporta una serie di riflessioni tra l'interessante e l'inquietante.

Prendiamo i dati di fatto.
In Aikido non esistono gare di combattimento.
Non ci sono regolamenti, non ci sono categorie e non ci sono coppe in palio.
E fin qui tutto ok.
Nel 99,9% dei casi, i ruoli di tori ed uke sono ben definiti e l'uno esiste in funzione dell'altro.
Esiste il kaeshi waza, è vero, ma esso è allenabile solo in funzione di parametri dati, come lo studio di una determinata forma da ribaltare o di un determinato errore da sanzionare, e non è assoluto e scientifico.
E pure qui, nessun problema.
Dunque quale momento resta ad un aikidoka per mettere in gioco il proprio sapere in situazioni AIKIDOISTICHE, ma non preordinate?
Il Randori ed il Jyuwaza.

E qui cominciano i casini.







Uno dei più famosi Shihan in circolazione, suole dire che il Randori non esiste e che l'Aikido è kata e rigore.

Arbitro cornuto.

Nel senso che colui che giudica non può mai sapere cosa fa la moglie a casa sua.

E nelle case che hanno Morihei affisso al muro, generalmente, il Randori ed il Jyuwaza si praticano eccome.

Chi più e chi meno, ovviamente.

A casa mia si pratica "più".

Cosa intendo per più?
Ora vi spiego.

Il Jyuwaza non è un esercizio, ma un percorso.

Un viaggio attraverso cui i rapporti spazio temporali,  i files in memoria inerenti ad i kata e tutto ciò che concerne quella tranquillità interiore che inconsciamente raggiungiamo prima di iniziare a provare una tecnica, sono messi in discussione.

I parametri con i quali solitamente partiamo, che danno per scontata la posizione di uke, il fatto che arrivi dal davanti, il lato dell'attacco, la velocità, la nostra posizione, la nostra respirazione, la chiarezza delle nostre percezioni, in Jyuwaza, come in Randori, non sono scontati manco per il caxxo.







Ma perchè parlo di percorso?
Perchè tutto ciò è soggetto a delle variabili progressive di libertà che vogliamo concedere ad uke o alla situazione.
Step che, attenzione, non siamo obbligati ad affrontare se non ne abbiamo il coraggio o la preparazione,  ma che fanno la differenza su quanto "RAN" andiamo a gestire nel "DORI".

Youtube abbonda di clips nelle quali sedicenti maestroni eseguono tecniche pensate a priori su uke monoattaccanti.
Nel senso che il loro ruolo si esaurisce quando terminano il gesto, shomenuchi, per esempio, per riattivarsi unicamente al momento della caduta, atleticamente finalizzata alla vanità del tori.

Spesso li vediamo terminare il loro attacco e paralizzarsi, come se il video clip andasse in PAUSE e solo il maestro potesse muoversi all'interno del tempo immobile...

Per quanto mi riguarda, generalmente do un margine di libertà ad uke abbastanza ampio, già da subito.

Può scegliere il lato dell'attacco, la posizione dalla quale attaccare e normalmente comincia con due o tre attacchi a disposizione, con i quali proporsi.
Tutto ciò ha una regola perentoria.
Finchè tori non prende il controllo dell'azione, uke deve continuare ad attaccare senza sosta.

Faticoso?
Tanto.
Sganascioni che arrivano a segno?
Tanti, anche loro.
Ma tanto è anche quello che si impara man mano che si aumenta la libertà dell'altro.





Per me, tutta la parte formativa, sia fisica che tecnica trova il suo senso compiuto nel Jyuwaza.
Esso non rappresenta un completamento della preparazione.
Ai miei occhi è la sublimazione finale di tutto ciò che apprendiamo.
E' il momento in cui si smette di fare esercizi, geometrie, propedeutica e tradizione e si comincia veramente a fare Aikido.

In quest'ottica, quello che viene fuori dal banco prova del Jyuwaza, ci permette di riguardare diversamente a tutti gli strumenti che avevamo messo nella cassetta degli attrezzi giorno per giorno.

Una pinza d'oro zecchino, per esempio, è bellissima e very chic, ma poco utile se si tratta di tirare un chiodo...




Così per i waza.
Invece di masturbarci mentalmente su cosa può fare uke mentre noi facciamo Ikkyo, comprendiamo immediatamente che quando decidiamo di fare Ikkyo è proprio perchè uke non poteva opporsi in alcun modo.
Per lo meno senza finire dritto dritto nelle fauci di Iriminage....

Alla stessa maniera anche l'attitudine può essere rivista attraverso le esperienze del RanDori.

Una delle cose che ci portiamo dietro come retaggio tradizionale è la regola di mantenere la schiena dritta in tutto ciò che facciamo.

Sicuramente all'inizio essa significa postura, equilibrio e consapevolezza del proprio asse verticale.
Ma alla lunga diventa un blocco, che oltre a farci rassomigliare a dei burattini con un jo infilato nel sedere, ci porta a bloccare la mobilità della colonna.

Ultimamente sto rivalutando di molto la mobilità vertebrale e la possibilità di schivare un attacco più "sporco", con una manovra evasiva simile al "bobbing" del pugilato.




Strano a vedersi fatto in hakama.
Eppure immediato, istintivo, efficace e perfettamente in sintonia con lo spirito dell'Aikido.

Quell'Aikido fatto di struttura e destruttura, fatto di Go e di Ju, di solido e di cedevole, capace di un SABAKI per ogni articolazione, che mantiene vive e mobili ognuna delle sue cerniere.

Spostare la testa, se attaccati alla testa, spostare la spalla, il busto, le gambe, quando vengono attaccate, è una possibilità che non può essere devoluta a carico di un unico movimento teso ad evadere con tutto il corpo contemporaneamente.

Un braccio che si distende bruscamente verso il nostro viso sarà sempre più veloce di qualsiasi Irimi Tenkan non preparato in anticipo, mettiamocelo in mente.

Morihei definì l'Aikido, tra le tante, anche come "Sfera Pulsante".
Un organismo vivente capace di chiudere completamente sul proprio centro ogni segmento e di riaprirlo espandendosi in maniera esplosiva.

Leggo e mi verrebbe da dargli una pacca sulla spalla...

Caro Nonno, sei sempre il migliore!










7 novembre 2012

Aikido Blogger Seminar AGGIORNAMENTI

Tutti i preparativi procedono a vele spiegate, soprattutto grazie all'ottimo Marco Rubatto che si sta smazzando in quattro per accogliervi nel migliore dei modi.

QUI potete scaricare la brochure dettagliata dell'evento, per quelli che ancora hanno bisogno di un incentivo per prenotarsi un B&B a Torino o per quelli che già tengono in mano il biglietto aereo e faticano a trattenere la bava in attesa di un'anteprima!

6 novembre 2012

Takuan Soho, il Modo ed il Motivo

Alla fine di uno dei suoi stage, Endo Sensei una volta tenne un discorso molto interessante.
In genere, ogni volta che termina un seminario, spende spesso due parole per sottolineare il senso di ciò che ha mostrato, ma in quello'occasione citò Takuan Soho.



Che è un pò come Spielberg che cita Hitchcock,  per intenderci, o Luc Besson che cita Sergio Leone...
Non puoi fare a meno di ritrovarti con gli occhi lucidi e i peletti del braccio drizzati. ..
In una lettera scritta a Yagyu Munenori,  Takuan parlava di due tipologie di allenamento.
Allenare il Ji,  il Modo, ed allenare il Ri, il Motivo.
Ora,  che allenare il Modo, significhi approfondire la tecnica, questo lo capirebbe anche mia nonna.
Come si fa Udekimenage? Questo è il Ji.
La cosa carina da notare è che la maggior parte degli insegnanti giustifica le proprie tecniche a partire dalle proprie premesse.
Se faccio così lui fa cosà, quindi invece di fare così faccio cosò.
Come si fa a dire cosa farà lui, non lo so davvero.
Uke non ha regole e può reagire come meglio crede, a meno di non fare cose completamente senza senso.
Tipo: io tiro Ikkyo omote e lui si mette un dito nel naso.



La follia non è contemplata...
Ma se io faccio Ikkyo omote e lui si gira e fa un passo, la cosa è molto meno folle e molto più probabile di quanto sembri...
Allora inizia la correzione.
Io condiziono uke a rispettare le mie premesse e le mie previsioni, cosicchè lui crei quei parametri giusti affinchè la mia logica non faccia una grinza.
Sul dizionario di google, questa cosa è citata come "barare".
Ma diamola per buona!
In fin dei conti, se ogni logica rappresenta un caso, ed ogni caso rappresenta un possibile scenario, ogni logica ha diritto di esistere e dignità di essere studiata.
Dunque nello studio del Ji, ogni Modo è il modo giusto, purchè all'interno del sistema tecnico ci sia un minimo di coerenza e di senso logico.
Nonostante ciò, per molti, a detta di Takuan, un monaco Zen vissuto nel 1600, il Ji è l'unica modalità di allenamento.



Il Motivo, ossia il perchè ed il quando, è lasciato al domani, a quanto il Ji sarà perfetto, a quando il praticante conoscerà ogni singolo dettaglio della forma, nella logica del suo insegnante, finchè quest'ultimo non si "evolverà" e la cambierà radicalmente.

Come dire "Conosco ogni dettaglio del cambio della mia auto, ne conosco gli ingranaggi, il peso, la dimensione, i materiali specifici e la profondità dell'incavo sul pomello. Ancora non so quando passare in seconda, ma un giorno ci arriverò!"
Il RI è imparare a riconoscere quando utilizzare uno strumento, perchè preferirlo ad un altro in base a parametri che per una parte sono schematizzabili ma per l'altra sono del tutto personali.


Significa allenare la comprensione, la strategia, la percezione tattile, la visione.
Significa mettere in gioco il proprio sapere e renderlo Vivo.



In ultima analisi significa comprendere come porsi nei confronti della situazione, per essere in grado di servirsi dei propri strumenti.
Per diventare tutt'uno coi propri strumenti...
Scrivetelo in agenda.
Dal prossimo Keiko, allenare la tecnica ED allenare il corpo a capire come servirsene.


1 novembre 2012

La sedia, la coerenza e il messaggero

Facciamo due conti.
Nel Giappone feudale, la vita media era all'incirca 60 anni.
Il che vuol dire che a 50 eri considerato vecchio, saggio e prossimo alla dipartita.
I samurai apprendevano qualcosa come 17 differenti discipline, dal maneggio delle armi al Jujutsu, dall'equitazione alle tecniche di arresto.
Ora, se consideriamo che per apprendere ognuna di queste discipline in maniera tale da affidare alla loro conoscenza le nostre chiappe ci vorrebbero per lo meno 5 anni di studio quotidiano, in media, dedicandone di fatto 7 alla spada e 3 al cavallo, per esempio, ed utilizzando la calcolatrice del mio pc, troviamo che 5x17=85
85 anni di allenamento quotidiano per padroneggiare tutto il sapere del Budo.
Senza manco eccellere, diciamocelo.



Bene.
Contiamo che un guerriero doveva essere pronto per scendere in battaglia prima dei 20 anni e chiediamoci un minuto come questo fosse possibile.
O i giapponesi avevano inventato una qualche magia per zippare 10 anni di allenamento in uno, una sorta di WinRar temporale, che sarebbe un pò il sogno dell'essere umano, oppure la loro didattica aveva un qualche segreto.
Viaggi nel tempo a parte, la spiegazione si trova in un unico principio di insegnamento delle discipline del Budo.
Il "RIAI".

RIAI vuol dire "coerenza".




Si parla della capacità di scambiare competenze tra varie aree di lavoro, in modo tale da utilizzare delle conoscenze acquisite in una di esse, per evolvere la maestria in tutte le altre.

Così,a livello strategico, quando si parla di "Nuki", per esempio, ossia la strategia di offrire un bersaglio all'avversario per attirare in quel punto il suo attacco, essa può essere utilizzata indipendentemente dall'arma che stavamo maneggiando.

Allo stesso modo, a livello tecnico, quando si parla di pressione indiretta, si identifica un movimento di una sezione del corpo utilizzando come motore un punto distante da quella sezione.

Flettere il gomito per alzare una mano, per esempio, è una trovata tecnica che funzia nel Jujutsu, per liberare un braccio, come nel Kenjutsu, per sollevare la spada o nel Jojutsu, per governare la punta e così via.

Per noi aikidoka, il Riai dovrebbe essere quel ponte che fa si che tutte le nostre aree si supportino l'una con l'altra.

Suwari Waza, Hanmihandachi, Tachi ed ovviamente Bukiwaza.

Ma secondo me, non solo.
Credo che quando il nostro sapere si universalizza, e passa dalla conoscenza dello strumento "arma" o dello strumento "tecnica", alla conoscenza dello strumento "corpo" e del rapporto "spazio-tempo", esso possa portarci anche al di fuori delle nostre aree di competenza.



Maneggiare un bastone corto, per esempio, pur non avendolo mai imbracciato, non dovrebbe essere così innaturale per chi si è allenato nel Taijutsu, nell'Aikiken e nell'Aikijo con lo spirito del Riai.

Nell'ultimo seminario di Palermo, per spiegare il Riai ho improvvisato un Jyu Waza utilizzando una sedia come arma.

Una sedia, avete letto bene.

Chiaramente non ispirandomi alle immagini dell'Uomo tigre, per quanto quelle scene impreversassero prepotentemente nella mia mente!

Ma come se fosse un Jo a 4 punte, passando da una presa di contatto ad una centralizzazione e ad una proiezione.
E man mano che ci prendevo gusto, riuscivo anche a mettere uke seduto sulla mia sedia, invece che lanciarlo via.

Il senso è semplice: se si sta attenti a non confondere il messaggio col messaggero, lo si può vestire di qualunque costume, conservandone il senso, la sensazione ed il piacere di praticarlo.