14 giugno 2012

I Libri, Morihei e la Saggezza d'Oriente

Quando ero bambino, ricordo che mio padre ci portava spesso in libreria.
Mi ricordo che all'inizio mi annoiavo a morte, non potendo toccare niente o sfasciare qualcosa liberando il mio istinto da Unno.
Ma dopo un po' cominciai a prenderci gusto.
L'odore dell'inchiostro stampato, dei quintali di carta, i colori delle copertine, i disegni e le foto...




La libreria è diventata da sempre una mia tappa fissa ogni volta che cazzeggio per strada, ed è quasi impossibile che non entri se ne incontro una inaspettatamente mentre sono giù a fare altro.

Molti anni fa, in epoca preinternettiana, che oggi uno si immagina poco differente dall' alto mesolitico, beccai in un microscaffale dedicato alla "Saggezza d'Oriente" una biografia di Morihei, occultata tra un "Guida ai canti indù" e ad un "Guarire con le caccole di Yak".

Ricordo di averla letta una serie di volte e di aver pensato, ogni volta che finivo l'ultima pagina, che O Sensei, in verità, fosse nient'altro che un pazzoide schizofrenico e visionario.



Uno che non ripete mai due volte la stessa tecnica, è un pazzoide.
Uno che spiega per allegorie mistiche è un visionario.
Uno che sale su un treno solo per scenderne un attimo prima della partenza, è un folle da rinchiudere...

Oppure è uno che la sa lunga.
Uno che ha ben chiaro cosa vuole fare e ne pensa una al giorno per arrivare dove si è prefissato.
Oggi la vedo così.
Anni di insegnamento, di studi sulla didattica e sulla filosofia alla base della pratica mi hanno portato a cospargermi il capo di cenere ed a ricredermi, chiedendo scusa a Morihei per averlo giudicato insano invece che geniale.



Se non vuoi che la gente si applichi sul gesto, ma che si concentri sull'attimo, non devi mai fargli rivivere lo stesso momento, non devi mai ripetere la stessa identica forma.
Se vuoi lavorare sull'attitudine più che sulla memorizzazione, non devi dire loro cosa fare, devi dare un'immagine che li faccia sentire in un determinato modo.
E devi inventarne ogni volta di più assurde per spezzare i loro schemi mentali, come un kohan, ma vivente.




Probabilmente le sue soluzioni furono assolutamente estreme, soprattutto in virtù del fatto che viveva nel Giappone del secolo scorso.
O forse forino tanto estreme PROPRIO perché viveva in quel contesto.

Solo mi chiedo: guardando O Sensei....com'è che oggi ci troviamo a questo punto??

Come è possibile che giù in strada la gente sia convinta che l'Aikido sia qualcosa da "sapere", piuttosto che un modo di "essere"?

Marketing. Questa è la risposta.




Perché chi ha deciso di essere Aikido ha intrapreso un cammino verso la libertà.
Che non vuol dire che fa il cazzo che gli pare, sia ben chiaro.
Vuol dire cominciare a pensare al di là dei preconcetti.
Vuol dire mettere in discussione le cose più elementari e fare delle scelte che molti non comprenderanno.
Ma  vuol dire anche pensare con la propria testa e sentire con il proprio cuore.
Scegliere, senza permettere che altri lo facciano per noi.
E come lo tieni al guinzaglio uno così???

2 commenti:

  1. Come concordo...Il fatto è che come cambiano i tempi, cambia anche l'Aikido, e sopratutto lo spirito con cui lo si pratica...Che cambi in meglio o in peggio, è la coscienza e il cuore di ognuno di noi che lo può dire...Non possiamo essere sicuri che l'attitudine con il quale le persone si avvicinano a questa Arte sia sempre in sintonia con la nostra, o con quella di chi per primo la portò sul tatami, ma alla fine libertà è anche questo: proseguire il cammino proprio come solo noi lo sentiamo dentro, nonostante tutto.

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